top of page

Search Results

364 elementi trovati per ""

  • FIOR DI PRATO... FIOR DI FIENO ... ultima parte

    e n'avais pas quinze ans que les monts et le bois, et les eaux me plaisaient plus que le cour de rois Rostand - primi anni 70 - io, di ritorno alle 10 di sera dopo aver raccolto e portato nella stalla le mucche - 𝓃ℴ𝓃 𝒶𝓋ℯ𝓋ℴ 𝒶𝓃𝒸ℴ𝓇𝒶 𝓆𝓊𝒾𝓃𝒹𝒾𝒸𝒾 𝒶𝓃𝓃𝒾 ℯ 𝑔𝒾𝒶 𝒾 𝓂ℴ𝓃𝓉𝒾 ℯ 𝓁ℯ 𝒻ℴ𝓇ℯ𝓈𝓉ℯ ℯ 𝓁ℯ 𝒶𝒸𝓆𝓊ℯ 𝓂𝒾 𝓅𝒾𝒶𝒸ℯ𝓋𝒶𝓃ℴ 𝓅𝒾𝓊 𝒹ℯ𝓁𝓁𝒶 𝒸ℴ𝓇𝓉ℯ 𝒹ℯ𝓁 𝓇ℯ Concludo con questo post gli articoli dedicati al fieno dei miei prati, quello che qui si è coltivato per anni per tagliare e conservare per l'inverno come cibo per mucche, cavalli, asini, ecc. Quello che un tempo era davvero ricchezza e chi più ne aveva, più animali poteva tenere, vista l'ingente quantità di fieno che mangia in un giorno una mucca, considerata l'animale più necessario, insieme al maiale, alla vita contadina di questa parte dell'Appennino, soprattutto in Liguria, dove gli appezzamenti di terreno seminativo sono davvero pochi, e la divisione delle proprietà infinita. Gli animali venivano tenuti al pascolo il più a lungo possibile fino all'arrivo della neve, perché si nutrissero di erba fresca e avessero bisogno di meno fieno possibile. In queste zone non c'era una vera transumanza, le mucche venivano portate al pascolo ogni mattina, una volta quasi sempre dai bambini che vivevano le loro giornate liberi sui monti, territori che brucati da ovini, caprini e bovini erano pulitissimi, con sentieri perfettamente tracciati. Intorno agli anni '70 gli ultimi contadini rimasti, accompagnavano le mucche al pascolo ogni mattina e le andavano a riprendere la sera, io stessa passavo le mie estati così e conoscevo ogni anfratto dei miei monti. Ho imparato qui ad andare a cavallo, a pelo, sulla cavalla del vicino, ho imparato, annusando l'aria, quando sta per arrivare un temporale, ho imparato a riconoscere le impronte degli scarponi di chi era partito prima di me per funghi, ho imparato a stare attenta alle vipere nelle giornate di "sciumbrio". Monti che ora non riconosco più, coperti come sono dalla vegetazione non più tenuta sotto controllo. Quelle rare volte che mi faccio portare sono sommersa oltre che dai rovi e dalla rosa canina, le "razze", dalle felci, una pianta che prima quasi non esisteva, 50 anni fa le andavamo a vedere su in alto dove le mucche non arrivavano. Un termine, fra i tanti, che non ho più sentito da anni, è "dare la mucca in sciù-vernu", cioè chi aveva più mucche ma non abbastanza fieno consegnava in custodia, una specie di adozione temporanea, una mucca al vicino che aveva il fieno ma non poteva permettersi la mucca o per qualche motivo gli era morta. Questo la allevava amorevolmente per tutto l'inverno curandola come sua, prendendo il latte, che gli procurava poi anche il formaggio, per riconsegnarla al legittimo proprietario in primavera quando questa avrebbe partorito il vitello. Una sorta di collaborazione, sconosciuta ai giorni nostri, che permetteva di non sprecare risorse e a qualcuno di sopravvivere meglio, senza il minimo scambio di denaro. Come ho già scritto nei due post precedenti FIOR DI PRATO>> e FIOR DI FIENO>> l'abbandono di questi territori e i cambiamenti del clima hanno fatto sì che inselvatichissero, facendo nascere in mezzo alle erbe pregiate per l'alimentazione animale altre erbe più resistenti che vengono comunque tagliate ancora dai pochi allevatori rimasti e da chi, come mio figlio tenta di tenere puliti i terreni, senza quindi tenere conto se questa o quell'erba sia più o meno utile. Di questo mi sono resa conto in questi ultimi anni interessandomi non solo delle erbe commestibili e notando sempre meno prati fioriti e con fiori che conoscevo bene rispetto ad altri che non avevo mai visto. Una delle piante ormai infestanti ovunque e del quale spesso non se ne conosce la tossicità sono i comuni Ranuncoli gialli di campo. Il nome viene da rana in quanto spesso si trovano in luoghi umidi, la famiglia è quella delle Ranunculaceae, la stessa della VItalba, del Favagello, del terribile Aconito, dell'Aquilegia, dell'Elleboro, e altre e non ne conosco personalmente una che non sia pericolosa. Con tossicità diverse, sempre se ingerite, spesso anche solo per contatto, dal semplice mazzolino di Ranuncoli gialli che può far venire un eritema, all'Aconito dove si registrano casi di morte solo per averlo toccato. Gli animali evitano i Ranuncoli per poi rassegnarsi a cibarsene nel fieno, quando essiccati perdono un poco la tossicità, le api, se non costrette, non li bottinano. Se si osserva attentamente un recinto di asini o cavalli si nota la terra battuta e ogni erba brucata, salvo spuntare qui e là ciuffi gialli di ranuncoli che evitano accuratamente. - Cresta di gallo - Una delle piante diffuse, non più estirpate dai contadini, facili da incontrare nei prati, sono le Creste di Gallo, genere Rhinanthus, come sempre ce ne sono infinite varietà, famiglia delle Orobanchaceae, e quindi, oltre ad essere moderatamente velenosa (gli animali la evitano) è emiparassita, ostacola la crescita alle piante vicine. - Mercorella o Erba Mercuriale - Un'altra pianta davvero tossica che sta invadendo le campagne e presto sarà anche qui è l'Erba Mercuriale. Tossica per l'uomo, può provocare avvelenamenti nel bestiame al pascolo. Come tante altre con l'essiccazione perde una parte di componenti tossici, ma non è sicuramente un buon foraggio. Si raccontava addirittura che la presenza di Mercorella nei filari di viti facesse poi andare a male il vino. - Senecio comune - - Senecione di San Giacomo o di Giacobbe - Fra le erbe infestanti anche degli orti, ci sono quelle appartenenti al genere Senecio, pianta comunissima che attacca il fegato, gli animali evitano le piante di Senecio nel pascolare, ma se sono nel fieno in quantità rilevante possono provocare danni anche letali soprattutto in animali molto giovani. Un'altra pianta davvero pericolosa è quella conosciuta come Senecione di San Giacomo, ma appartenente a un altro genere, le Jacobaeae. - fusto di cicuta - Sorrido sempre agli incontri quando parlando di Cicuta mi sento dire - Ma come, c'è la cicuta qui da noi?- C'è più cicuta oramai che carota selvatica e insieme convivono spesso vicine, ed è per questo che sconsiglio vivamente ai neofiti di raccogliere erbe che assomiglino al prezzemolo (prima regola che insegnano i vecchi raccoglitori) o alla carota, perché il rischio di confonderle c'è davvero. Specie in primavera con le piante giovani, fra le varie cicuta, il Conium maculatum, è più riconoscibile per il gambo appunto "maculato" di rosso, e anche per il cattivo odore che emana e se per caso posata sulla lingua l'immediato senso di bruciore che si prova. Per tutti gli animali al pascolo è fortemente pericolosa, 500gr. possono essere letali per un cavallo... Anche questa sempre più spesso la si può ritrovare nel fieno ormai non controllato, dove perde tossicità, ma ... - carota selvatica e cicuta che convivono nel prato vicino a casa - - Felce aquilina - La stessa felce di cui parlavo prima, ora tappezza tutti i boschi e i prati, è ricca di sostanze tossiche che provocano malattie diverse secondo l'animale che lo ingerisce, nei bovini per esempio provoca cistiti e tumore della vescica (IL RUOLO DELLA FELCE...>>>). La Coronilla, pur essendo una pianta con importanti tossicità, ha un contenuto simile alla digitale, viene inconsapevolmente qualche volta coltivata come foraggio, e anche come decorativa. Qui la trovo sempre più spesso a sostituire trifogli e sulla e se pure forse ne serve una grande quantità per provocare problemi nel bestiame non è sicuramente una delle piante più consigliate. Noi siamo quelli dell'Italia periferica, Quelli che cento anni fa sono rimasti a vivere in campagna, Quelli che cercano di strappare all'oblio Almeno alcune tra le mille magie dell'antico vivere contadino. Noi siamo quelli che resistono a tutto, da millenni, Al silenzio, all'abbandono, al freddo, alla ciclica povertà, Al silenzio, ai soprusi, alle cittadine leggi dei padroni, Al silenzio, al terribile, dolce, interminabile susseguirsi delle stagioni. Al silenzio. Un giorno avrete bisogno davvero di noi. Verrete a chiederci come si fa a vivere così. E non lo farete per curiosità, ma perché non avrete altra scelta. E noi vi mostreremo terre incolte, con la nostra solita, unica faccia. Noi siamo quelli dell'Italia periferica. Vi aspettiamo qua. Paolo Papalini Questo è un elenco limitato, soprattutto alle erbe che ho intorno in questa zona. Inoltre piante che sono velenose per un animale non lo sono per un altro, così come erbe buonissime infestate da funghi possono diventare tossiche o come la Galega, coltivata per anni per la sua attività stimolatrice della secrezione lattea, tanto da essere data anche alle puerpere, si è poi scoperto come durante la fioritura diventasse tossica fino a provocare la morte di alcuni animali. Altre erbe o arbusti ormai infestanti e con tossicità, di cui ho già parlato come EDERA, PERVINCA,EBBIO, SAMBUCO, VITALBA, ecc. La CELIDONIA della famiglia delle Papaveracee è tossica per uomini e animali che la scartano trovandola. L' IPERICO, diventa tossico se mangiato in quantità da bovini cavalli e ovini. Nei prati sono presenti anche specie non tossiche ma a volte di scarsa appetibilità come per esempio le grandi margherite bianche, commestibili anche per l'uomo, ma amare e non gradite, e in misura minore erbe e fiori conosciuti di cui ho già scritto, di scarso valore foraggiero che non fanno propriamente parte delle erbe da fienagione. LINO, POLIGALA, ACHILLEA , SALVIA, TARASSACO, GALIUM, PIANTAGGINE ecc. ecc. e altri che si trovano nella categoria FIOR DI... cliccando si accede all'articolo dedicato. - Natural History Museum, Vienna, Falce neolitica - Bene lo sapevano i vecchi contadini e soprattutto le contadine quando tutti i giorni armati di "mesoîa" , la falce messoria, attrezzo rimasto quasi immutato dal neolitico, prima in selce poi in bronzo e infine in ferro, tagliavano l'erba per gli animali da cortile galline, conigli. Un lavoro fatto a mano, spesso nei poggi dove era possibile controllare ed estirpare quelle considerate malerbe. Gli uomini invece provvedevano con la falce fienaia, la gruiàtta, a tagliare il fieno nei campi, lavoro che durava per tutta l'estate, e alla raccolta partecipavano tutti grandi e piccoli, donne e bambini. Il fieno tagliato veniva prima più volte rigirato perché seccasse bene, poi rastrellato e legato nelle "reie" reti di corda a maglie larghe, che sulle spalle venivano portate nelle "cabanne", dove sciolto, era conservato all'asciutto. Una rete poteva pesare anche più di un quintale. A destra due "reie" pronte per essere messe sulle spalle, nella foto non si vede ma sono sull'orlo del poggio per essere agevolmente caricate dalla strada. - anni '70 - fra le ultime "cabbanne" con il tetto di paglia, costruzioni classiche della Val di Vara, (pare provengano dai Celti) vicine alla stalla per riporre fieno e foglie Come ultime considerazioni mie non rimpiango certo la vita improponibile di fatiche disumane che era la fienagione un tempo. Mio figlio, che non riuscirebbe a tagliare a mano un prato e non porterebbe una reie per pochi metri, taglia e imballa da solo con i macchinari qualche tonnellata di fieno. Vorrei solo un poco di attenzione in più per il territorio, unire l'esperienza di un tempo con le conoscenze attuali per avere un ambiente vivibile per tutti, uomini e animali, natura e scienza in quell'equilibrio che adesso è assolutamente perso. Le erbe potenzialmente tossiche che ho descritto hanno sicuramente il loro posto nell'imperscrutabile disegno della natura, proprio quella natura che ci ricorda tutti i giorni che non ha bisogno dell'uomo. L'equilibrio lo dobbiamo trovare noi per sopravvivere. L'erba ha poco da fare. Sfera d'umile verde. Per allevare farfalle E trastullare api. MuoversI tutto il giorno A melodie di brezza Tenere in grembo il sole Ed inchinarsi a tutto. Infilare rugiada La notte come perle. E farsi cosi bella Da offuscare duchesse. Quando muore, svanire Come dormienti spezie E amuleti di pino. Ed abitando nei granai sovrani I suoi giorni trascorrere nel sogno L'erba ha poco da fare Ed io vorrei esser fieno! Emily Dickinson alcune foto sono tratte dal sito Actaplantarum>>> Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze affascinanti. Se vuoi puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>>

  • ABETE O NON ABETE? L'ALBERO DI NATALE

    O Tannenbaum Dein Kleid will mich was lehren: Die Hoffnung und Beständigkeit Gibt Mut und Kraft zu jeder Zeit! O Tannenbaum... da fine 1700 è una delle più antiche canzoni di Natale e parla di abeti illuminati Finite le feste si ripongono gli addobbi, ornamenti e decorazioni ben riposti in scatole, prendono la via della soffitta o della cantina. Per il presepe è tradizione aspettare un po' di più, in casa si arrivava al 2 febbraio, il giorno della Purificazione della Beata Vergine Maria, passati i 40 giorni dal parto, e Presentazione di Gesù al Tempio. Quest'anno la sindrome influenzale mi ha impedito di addobbare alcunché, ma tosse e sintomi li ho alleviati con lo sciroppo di gemme d'abete fatto questa estate e così ho pensato di scrivere qualcosa sugli Alberi di Natale. L'usanza di decorare un albero nel periodo del solstizio d'inverno è antichissima, nel Nord Europa come i Romani, legata alla speranza di veder tornare la primavera e la luce (non ne erano così certi una volta) ed era normale scegliere per quello scopo una pianta che avesse ancora le foglie verdi. L'uso pubblico di un abete decorato sembra risalire al Natale del 1411 nella piazza di Tallin, anche la città di Riga se ne appropria la paternità, ma non esistono documenti. Sembra invece certo che all'epoca di Martin Lutero in tutte le case si addobbasse un abete con candele vere, e che già venissero commercializzati alberi a quello scopo, fino ad arrivare al XIX secolo quando principesse e principi di origine germaniche lo introdussero nelle loro residenze e divenne normale anche nel resto d'Europa. Per quanto riguarda la Liguria, fino alla seconda guerra mondiale era un ramo d'alloro l'albero di Natale e sulle montagne dell'entroterra assolutamente un ginepro. Le decorazioni nelle case erano per lo più fatte di carta, frutta secca, qualche dolcetto e mandarini. Immancabili le luci, che con l'avvento della luce elettrica resero tutto meno pericoloso delle candele vere. Ma quelli che comperiamo oggi sono abeti? Abies è un genere botanico che comprende numerose specie di alberi, Conifere, della famiglia delle Pinaceae. Per dirla semplice Conifere (o Pinophyta) perché i semi sono contenuti in coni legnosi, Pinaceae perché le foglie sono aghiformi. Pini, Cedri e Larici appartengono alla stessa famiglia e gli Abies si distinguono per avere gli aghi inseriti singolarmente nel ramo mentre gli altri li hanno riuniti in gruppi. Ma quello che portiamo a casa per decorare è un vero abete? cioè un Abies? Quasi sempre no, a meno che non si chieda esplicitamente. Solitamente è un Picea abies o Peccio, detto anche Abete rosso, non del genere Abies, ma Picea. La differenza? gli Abies hanno le pigne mature erette, i Picea le pigne mature pendule. Le foglie trasformate in aghi per offrire meno superficie alla neve e raccogliere meno peso, sono piatti negli negli Abeti e spesso disposti a pettine, nei Pecci sono di forma rombo-quadrangolare e tutto intorno al ramo. Abies alba Picea abies foto di Monaco Nature encyclopedia Si preferiscono i Pecci per il portamento più regolare, la crescita abbastanza veloce, le radici che si estendono orizzontalmente e quindi più facile alla sopravvivenza anche in vaso, per qualche anno. A scopo ornamentale è sicuramente la specie più coltivata in tutta Europa, usata anche come rimboschimento. Occorre tener presente che la selvicoltura, specie di Picea abies, occupa migliaia di ettari solo in Europa, anche se noi quando entriamo in un bosco pensiamo sempre che sia la "natura" e che l'oculato taglio di alcuni esemplari non è solo a scopo commerciale, ma rientra in un progetto ampio di tutela delle piante e del bosco tutto, anche quando si tratta di alberi molto grandi. La Selvicoltura moderna prevede il bosco disetaneo, cioè con piante di diversa età, che vengono prelevate con oculatezza, per permettere la crescita delle piantine giovani. Se qualcuno pensa che la Selvicoltura sia una pratica moderna esclusivamente commerciale è bene ricordare che arriva dalla preistoria, e che diversi secoli fa il legno era molto più usato di adesso per la costruzione di tutto, navi, case, scaldarsi. Basti pensare a Venezia costruita su pali di pino, quercia, larice, tutti provenienti dalle foreste del Friuli trasportati sull'acqua dei fiumi Adige, Brenta e Piave e non è che a quei tempi fossero così tonti da non capire che se tagliavano e non ripiantavano presto sarebbe finito il legname a disposizione. Semmai è recente, intorno al 1800, la regolamentazione della selvicoltura con regole ben precise che tengano conto delle esigenze commerciali ma anche del bosco e delle piante. Tutte le piante che si possono trovare sul monte Biscia venendo dalla riviera in questa vallata sono state piantumate una cinquantina di anni fa e una decina le ho piantate io. Gli abeti del Biscia visti dalla cima del Monte Porcile Quindi vorrei spezzare una lancia per gli alberi di Natale veri, così contestati tutti gli anni. Non è possibile andare a tagliare l'albero nel bosco, tutte le piante immesse regolarmente in vendita nei garden sono con certificato e provengono da vivai autorizzati, così come qualsiasi altra pianta che si acquista. Per coltivare questi abeti vengono utilizzati terreni, spesso abbandonati, poveri, marginali di collina e bassa montagna e contribuiscono a prevenire il dissesto idrogeologico. Vengono regolarmente sostituiti all'espianto con piante giovani. Un albero comperato con il pane di terra ha sempre una possibilità, anche se inizialmente si tiene in vaso. Nel caso sopravvivesse alle temperature interne, per cortesia è da evitate di trapiantarlo a caso nella prima campagna, o peggio nel giardino, a meno che non si abbia a disposizione una villa con parco. In Italia non esistono i terreni di nessuno, o sono proprietà privata o sono demaniali e un abete messo in un posto sbagliato può fare più danno che guadagno. Molte altre varietà di Pecci e di Abeti sono coltivati per l'utilizzo come Alberi di Natale. Pianta di Picea abies acquistata come albero di Natale una ventina di anni fa e trapiantata nel giardino pensando non resistesse, è cresciuto tantissimo, e dovrà essere tagliato purtroppo. Sotto un'altro abete di Natale, trapiantato proprio qui nel giardinetto in mezzo alle case. Dopo diversi anni, meno di quanti si possa pensare, è stato necessario tagliarlo perché cresciuto oltre i tetti, nella foto non si vedono più i rami bassi, già tagliati, che lambivano i muri e lasciavano le finestre in un'ombra perenne e impedivano la ristrutturazione degli edifici. Non è stato semplice nemmeno abbatterlo perché lo spazio dove farlo cadere era pochissimo e ci sono volute persone veramente esperte e l'operazione non è costata pochissimo. Se l'abete sopravvive, messo nel posto giusto, a primavera potrà regalare le nuove gemme che possono essere utilizzate in tanti modi. Ne ho già scritto qui Di Sciroppi e zuccheri con fiori gemme foglie e...>>> dove racconto dello sciroppo cotto, ma da qualche anno invece mi limito a fare quello al sole, che quest'anno mi è stato utilissimo per la tosse di questa brutta influenza. Basta fregare tra le mani qualche ago per accorgersi dal profumo delle proprietà balsamiche di questi alberi, che vengono trasferite dal sole nello zucchero, sciolto dallo stesso sole diventa sciroppo. A primavera, appena sui rami appaiono le geme verde tenero si raccolgono, nella quantità necessaria e soprattutto senza raccogliere a cottimo tutte quelle che si vedono, ma lasciandone anche all'albero, si mettono in un vaso coperte di zucchero (non ho quantità vado ad occhio) e si lasciano al sole chiuse per il tempo, almeno 40 giorni. Lo zucchero sciogliendosi al sole assorbirà profumi e proprietà delle gemme diventando uno sciroppo balsamico con il quale dolcificare latte e tisane nel periodo invernale, o preso anche così, un cucchiaino al mattino. Il migliore è quello ottenuto con il Pino mugo, dal quale deriva il famoso mugòlio e sicuramente ci sono differenze anche fra gemme di abete, gemme di pino o di peccio, ma non le conosco in maniera approfondita, so che in ogni caso fanno bene, sempre nella giusta misura. L'uso alimentare non si limita allo sciroppo, gli aghi profumati possono essere aggiunti alle insalate, agli impasti, seccati con altre erbe per farne tisane, regaleranno un gusto inaspettato. I germogli sono più teneri e dolci e profumatissimi. Nella seconda foto ho aggiunto qualche fiore di sambuco e petali di rosa, così come faccio per le tisane Per quanto riguarda il riconoscimento fra albero e albero, molto ci sarebbe da dire ancora oltre le nozioni elementari scritte sopra, l'unica attenzione può essere nel non confondere abete con tasso, albero molto pericoloso, sicuramente uno dei pochi vegetali che contengono una sostanza velenosa mortale. Non è così facile imbattersi in un albero di Taxus baccata selvatico, in quanto la pianta non forma boschi, si mescola a faggi e aceri. È molto usata per siepi e nei parchi, perché adatta all'arte topiaria, e non mi capaciterò mai del perché visto la sua pericolosità. Come tutti i vegetali molto tossici si è rivelato prezioso in medicina, la tassina, il potente alcaloide mortale contenuto nelle foglie e nella corteccia e nei semi, è usato in via sperimentale nella chemioterapia per alcuni tumori della mammella e dell'ovaio. L'albero è meno imponente dell'Abete, di crescita più lenta, con chioma meno regolare. Gli aghi, molto somiglianti all'abete, sono più erbacei, pure il ramo è verde e non marrone come nell'abete, e finiscono a punta, non rotondeggianti come l'abete, anche se non pungono in quanto morbidi. Sui rami potrebbero essere presenti i fiori maschili o gli arilli rossi che proteggono il seme, che sarebbero anche l'unica parte non velenosa della pianta, solo l'arillo rosso, il seme dentro è pericolosissimo, che lo distinguono dall'abete con certezza. La corteccia è di colore rossastro e tende a staccarsi. Taxus baccata - foto prese dal sito Actaplantarum Quest’anno mi voglio fare un albero di Natale di tipo speciale, ma bello veramente. Non lo farò in tinello, lo farò nella mente, con centomila rami, e un miliardo di lampadine e tutti i doni che non stanno nelle vetrine. Un raggio di sole per un passero che trema, un ciuffo di viole per il prato gelato, un aumento di pensione per il vecchio pensionato. E poi giochi, giocattoli, balocchi quanti ne puoi contare a spalancare gli occhi: un milione, cento milioni di bellissimi doni per quei bambini che non ebbero mai un regalo di Natale, e per loro un giorno all’altro è uguale, e non è mai festa. Perché se un bimbo resta senza niente, anche un solo, piccolo, che piangere non si sente Natale è tutto sbagliato. G.Rodari Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze affascinanti. Se vuoi puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>>

  • E' l'ora dell'ALLORO 🌿- l'öfêuggio pe digerî e altri usi

    “Mangiare è un diritto, digerire è un dovere.” Marcello Marchesi Se non ora quando? Parlare dell'Alloro e delle sue proprietà digestive? E non solo. Le festività appena trascorse hanno sovraccaricato stomaco e intestini di tutti, quindi di corsa a farsi una tisana di Alloro. Se per altre erbe è importante fare distinzione fra la procedura decotto o infuso, nel caso dell'alloro non la faccio. DECOTTO DI ALLORO Anzi, parto dall'acqua fredda: due o tre tazze di acqua in un bricco di vetro tipo Pyrex (odio fare le tisane nel metallo), spezzetto dentro tre quattro foglie di Alloro, fresche o secche non importa, e metto sul fuoco.Le foglie giovani hanno più proprietà. Faccio sobbollire una decina di minuti, filtro nella tazza e volendo aggiungo qualche poco di scorza di limone. Ancora qualche minuto e poi bevo con calma. Non metto zucchero, nemmeno miele, mi sono abituata a berlo così. Qualsiasi sia la tisana che voglio fare di Rosmarino, salvia o quello che voglio, una foglia di alloro ormai la metto sempre Per quel che mi riguarda l'effetto è assicurato se serve per la digestione. Non per niente in cucina è usato nei piatti impegnativi dalla cottura lunga come ragù, sughi, arrosti ecc. ecc. E' utile perfino nei casi di inappetenza. Le proprietà dell'Alloro non si limitano a quelle digestive, la tisana fa bene in caso di influenza, dolori vari, mal di testa, febbre. Si può bere tranquillamente tutti i giorni, specialmente questi giorni, e si può usare per sciacquare i capelli per combattere la forfora. IL LIQUORE DI ALLORO Se proprio non piace la tisana, si può passare al liquore. Una delle tante ricette consiglia di mettere una trentina di foglie in mezzo litro di alcol puro per almeno cinque giorni. Dopo si filtra, si aggiunge mezzo litro di acqua e 2 etti di zucchero e si lascia riposare per un mese prima di bere. L'OLEOLITO DI ALLORO L' oleolito fatto con le sue bacche o le sue foglie è utile nei dolori da reumatismi o da contusioni. Basta mettere una manciata di bacche o foglie in un vaso al riparo dalla luce e coprirle di olio di oliva. Dopo un mese si filtra e si conserva sempre in una boccetta scura e si massaggiano poche gocce sulle parti doloranti. Ha anche proprietà tarmicide, un ramo a seccare dentro l’armadio contrasta i parassiti, anche fra le farine in cucina, e, udite udite, un ramo di alloro appeso in cucina mantiene la pace familiare e preserva dalle liti domestiche.😜 Con le bacche mature cotte in acqua si può fare un olio prezioso per saponificare, ma bisogna essere esperti e la cottura va eseguita all'aperto per i fumi tossici che produce. - Fior d'Alloro - L'Alloro, l'öfêuggio in genovese, è in Liguria la pianta tradizionale del Natale. Anticamente era il nostro albero di Natale, tagliato la mattina del solstizio e addobbato di mandarini, nocciole, nastri e fiocchi bianchi e rossi, i colori di Genova. Di Alloro il ceppo donato al Doge per il Confeugo, e di Alloro il tronco che doveva bruciare in tutte le case dalla notte di Natale a Capodanno e alle cui ceneri, conservate, venivano attribuite proprietà scaramantiche. Di Alloro, per tradizione, il rametto nel centro del "pan doçe", che sarà tagliato da "o fantìn", il più giovane celibe di famiglia. Pianta officinale, l'Alloro, nome scientifico Laurur nobilis L., spesso messa vicino alle case, non viene colpita dai fulmini, sacra fin dall'antichità, protagonista del mito di Dafne e Apollo, simbolo di trionfo e di vittoria. La corona di alloro con la quale si incoronavano gli imperatori è poi passata ai "laureati" che proprio dal Laurus nobilis prendono il nome. Le foglie sono utili anche per tenere lontani i parassiti delle farine, paste ecc. Un ramo appeso nell'armadio tiene lontane le tarme. E' quasi impossibile, per l'aroma che emanano le sue foglie appena stropicciate, confonderlo con altre piante simili, tipo il lauroceraso o l'oleandro, entrambe velenose. Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze interessanti. Se vuoi, puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>> Tutti gli usi alimurgici o farmaceutici indicati sono a mero scopo informativo, frutto di esperienza personale, declino ogni responsabilità sul loro utilizzo a scopo curativo, estetico o alimentare.

  • RAVIOLI E RAVIEU

    "...stava genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di capponi..." Decamerone - Giovanni Boccaccio E venne il giorno dei ravioli. Quest'anno è stata dura riuscire a raccogliere la borragine e la scarola per il cattivo tempo che dura da non so più nemmeno quanto, poi la neve, poi il posto nel congelatore, poi qualche giorno di dolori, poi preparare i pochi pacchetti da regalare, poi finalmente è arrivato il giorno giusto, oggi. Una necessaria premessa: in casa mia mai mangiato ravioli e tanto meno sugo, nel senso di ragù. Mia madre amava più le cose leggere, di verdura, le cotture veloci, mai soffritto niente, le poche uova. Sposandomi sono stata catapultata in un mondo dove i ravioli rappresentavano l'unità di valutazione. La riuscita di qualunque e dico qualunque festa, matrimonio, Natale, Pasqua, ferragosto era misurata in base alla bontà dei ravioli portati in tavola. Poteva essere presente qualsiasi leccornia ma alla fine della giornata la conversazione verteva sempre su come erano i ravioli, va da sé che essere riconosciuta come una donna che faceva dei buoni ravioli aveva la sua importanza. La cosa deve trasmettersi nel DNA perché i miei figli cresciuti con tortellini e pansoti della nonna hanno comunque ereditato questo concetto -"Ma i ravioli come erano?"- Per me era tutto troppo difficile, venivo dalla riviera dove i ravioli erano quelli genovesi con poche uova, carne così così, animelle e laccetti, la sfoglia anche quella povera conditi con il Tuccu e approdavo ai confini con l'Emilia dove invece sono ricchi di uova, di carne di maiale, di un particolare salume, la murtadella, ormai introvabile, insaccata quasi apposta, conditi con un sugo altrettanto ricco di carne tritata, costine di maiale, sempre guardando al ragù bolognese. Alla fine ho trovato la mia versione prendendo un po' di qua e un po' di là. Per correttezza pubblico la ricetta dei ravioli alla genovese così ben descritta da Nicolò Paganini, nel 1839, poco prima di morire ... Ora veniamo alla pasta per tirare le sfoglie senza ovi. Un poco di sale entro la pasta gioverà alla consistenza della medesima. Ora veniamo al pieno. Nello stesso tegame colla carne si fa in quel suco cuocere mezza libbra di vitella magra, poi si leva, si tritola e si pesta molto. si prende un cervello di vitello, si cuoce nell’acqua, poi si cava la pelle che copre il cervello, si tritola e si pesta bene separatamente, si prende quattro soldi di salsiccia luganega, si cava la pelle, si tritola e si pesta separatamente. Si prende un pugno di borage chiamata in Nizza boraj, si fanno bollire, si premono molto, e si pestano come sopra. Si prendono tre ovi che bastano per una libbra e mezza di farina. Si sbattano, ed uniti e nuovamente pestati insieme tutti gli oggetti soprannominati, in detti ovi ponendovi un poco di formaggio parmigiano. Ecco fatto il pieno. Potete servirvi del capone in luogo del vitello, dei laccetti in luogo del cervello, per ottenere un pieno più delicato. Se il pieno restasse duro, si mette nel suco. Per i ravioli, la pasta si lascia un poco molla. Si lascia per un’ora sotto coperta da un piato per ottenere le foglie sottili. Anche qui c'è la salsiccia, il cervello, la sfoglia senza uova, e tre nel ripieno. Per tradizione a Natale i ravioli si mangiavano il giorno dopo proprio per recuperare le varie carni che potevano essere servite il giorno prima, quindi nelle vecchie ricette si trova anche il cappone. Oltre alla Borragine nelle ricette tradizionali si trova la scarola o indivia proprio a smorzare il gusto dell'erba e in definitiva due verdure che resistono al freddo e pure alla neve. Per la ricetta dell'alta Val di Vara ho nominato la murtadella, un salume che veniva confezionato con la pasta simile a quella della salsiccia, senza lardelli e insaccato come un salame e fatto stagionare, che serviva poi per fare sia il ripieno insieme a carne di vitellone, che il sugo e che conferisce alla pietanza un sapore difficile da eguagliare con altri. La verdura usata qui le bietole, essendo introvabile fino a qualche anno fa in questi terreni la borragine. Gli ingredienti che uso per la mia versione mista: 150 gr. vitello 150 gr. di verdura fra borragine e scarola bollite e spremute 50 gr. parmigiano reggiano 2 uova Maggiorana Per la pasta: 150 gr. di farina di grano duro 150 gr. di farina 00 o 300 gr. di sola farina 00 un uovo poca acqua un pizzico di sale Si prepara la pasta che va lasciata a riposare coperta. Passate in poco olio e burro, con una foglia di alloro e qualche pinolo, le carni, tritate poi nel tritacarne e non nel mixer o nel moulinette, carne, verdura e maggiorana. Il ripieno dei ravioli non deve essere finissimo, come per esempio nei tortellini. Si aggiungono due uova e il parmigiano e si mescola per bene, regolando di sale. Si stende la pasta con il matterello, il più possibile rotonda, si piega per segnare il mezzo, si stende con una spatola il ripieno su una metà, se fosse troppo sodo si mescola un poco di mollica imbevuta di latte tritata, sempre controllando poi il sale, si ripiega sopra l'altra mezza sfoglia, si da una spianata e ora si possono segnare i ravioli da tagliare poi con la rotella dentata. Nella foto si vedono gli attrezzi usati nei tempi andati, io li ho visti usare tutti. Un semplice riga in legno con la quale fare prima le righe orizzontali partendo dalla parte piegata, così da spingere verso l'esterno il ripieno e poi in verticale per fare i quadrati. Due attrezzi con dei quadretti disegnati da premere sulla pasta. Quello tradizionale è quello lungo, che esiste con i quadretti di varie misure, da sugo, più piccoli da brodo, ecc. Ultimo il matterello da ravioli, anche questo esiste in più misure. Non c'è il così detto Raviolamp, usato quando si fanno le sfoglie con la macchina per la pasta. Ma il motivo è un altro, i nostri veri ravioli non hanno il classico bordo di pasta vuota che lascia qualunque macchina per la pasta, sono quadrati tutti ripieni. Segnati con il matterello da ravioli, tagliare con la rotella dentata, quelle antiche non hanno paragoni con quelle moderne di adesso. Con una spatola si sistemano su di un vassoio e coperti con carta forno, per quanto mi riguarda li sistemo in congelatore. Mi piace ricordare come una volta si conservassero religiosamente le cartoline ricevute perché non avendo spatole larghe servivano egregiamente per tirar su i ravioli. Con questa dose ho ottenuto circa 800 gr. di ravioli che per questo Natale scarno di presenze, saranno più che sufficienti, visto che non mancheranno anche i tortellini. Questa quantità di farina che viene tirata della misura di un normale matterello lungo veniva denominata "ina crostâ de ravieu", parola che non so quanti giovani potrebbero conoscere oggi, e anche in questa caso diventava unità di misura per definire l'importanza della festa: " ha impastato tot croste di ravioli..." Mentre preparavo il ripieno e riposava la pasta, ho messo su il sugo. Carota, sedano, cipolla, pinoli, foglia di alloro e il trito misto di maiale e vitellone in olio e burro che poi ripasserò di nuovo nel tritacarne. Aggiungo a rosolare qualche costina di maiale, sfumo con il vino bianco Ripasso nel tritacarne, aggiungo pepe e sale, passata concentrata di pomodoro con un poco di acqua calda e lascio a "croccu-à" sulla stufa per tutto il pomeriggio, fino a che galleggerà l'olio in superficie, ma in pratica tutto il pomeriggio e serata. Quest'anno ho trovato rotta la secolare pentola di terra e con questi "chiudo apro rosso arancio qui sì qui no" non sono riuscita a girare per comperarne una nuova, mi sono adattata alla pentola di acciaio, sempre però con il fondo spesso, pazienza. Se si preferisce il classico Tuccu la ricetta è qui>>> TÓCCO DE CARNE E FÓNZI NEIGRI Dato che avevo sporcato cucina e aggeggi vari, nel frattempo ho fatto anche il ripieno e la pasta per i tortellini. Mi sono fermata un attimo per finire il post, vado che mi attende una lunga serata di taglia, piega, gira intorno al dito... La ricetta dei Tortellini è qui, con tutti i segreti di casa mia, ma mi raccomando piccoli >>>https://www.lellacanepa.com/single-post/2017/12/22/i-miei-tortellini Potevo raccontare quella di quel tal Ravioli che, al confine con il Piemonte, pensò di chiudere le palline di carne formaggio e verdura, bollite in acqua, talmente buone che faceva nella sua osteria, in un sottile strato di pasta perché potessero essere trasportati, e cotti a casa, visto che con il successo clamoroso avuto dalla pietanza non si riusciva a servire tutti gli avventori... o che il nome derivi da rovigliolo nel senso di groviglio di pasta e ripieno, che di fatto già nel 1100 verso Savona si parla in un contratto fra mezzadro e padrone di vino, carne, e ravioli... ma non ho tempo ... Non se lese nell’istoia Patria, scritto né memoia, No se trêuva niscûn daeto De chi posse ese mai staeto Quello bravo e bon figgiêu Chi ha sapûo inventậ i Raviêu Martin Piaggio Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze affascinanti. Se vuoi puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>>

  • SANCRÂO, I FINTI CRAUTI

    Oggi mi sono fatta un piattino di Sancrâo, una delle pietanze preferite di mio padre. D'altronde era nato in Piemonte e per le solite contaminazioni fra vicini non saprei dire se il piatto da lì è arrivato o lì è andato. Per tanto tempo da bambina ho creduto fossero i crauti, per una sorta di saccenteria che non voleva il dialetto, traducendo il termine tedesco sauerkraut che indica sì i crauti ma quelli ottenuti attraverso la fermentazione del cavolo, non certo con la ricetta di questi preparati qui. I Sancrau o Sancrou di uso ligure e piemontese sono in pratica cavolo stufato lentamente, possibilmente sulla stufa a legna nella pentola di terra. Per quanto mi riguarda preferisco prepararlo con il cavolo cappuccio, cioè quello più chiaro e lisco, pronto già a mezza estate, che non deve aspettare il gelo come gli altri, quello buonissimo tagliato fine fine crudo in insalata, ma in mancanza si può pensare di usare la verza. Il risultato non sarà lo stesso. Si taglia a listerelle non troppo fini, non finissimo come si taglia per mangiarlo crudo (in quel caso io lo taglio con l'affettatrice). Si lava velocemente. In una casseruola di terra si mette olio buono, qualche filetto di acciuga sotto sale pulito e dissalato, uno spicchio d'aglio o più se piace, qualche pinolo, ma se non ci sono i pinoli pazienza. Si lascia scaldare l'olio e sciogliere l'acciuga senza far soffriggere nulla, a fuoco dolcissimo, e a quel punto si mette il cavolo lavato ma non strizzato. Si alza la fiamma quel tanto per permettere al cavolo di assorbire, mescolando, il condimento, si rimette sul fuoco basso e con il coperchio si lasciare stufare dolcemente anche per 40 minuti, un'ora. Si assaggia a metà cottura per regolare di sale, ricordando che l'acciuga era salata, e si aggiunge un mezzo bichiere di aceto e si finisce di cuocere. Qualcuno mette un cucchiaio di zucchero, qualcuno mette i capperi. I capperi io a volte sì, lo zucchero mai. Ê cotto quando l'acqua di vegetazione e quella sgrondante dal lavaggio si sono consumate e anche, a me piace così, appena appena colorito, come una rosolatura all'ultimo, alzando appena la fiamma, con attenzione, perché non bruci. Se è un giorno che prevale la mia parte piemontese, con le alici e l'aglio dell'inizio aggiungo qualche pezzo di luganega o qualche pezzo di salsiccia, perché la morte sua è comunque servito con qualcosa di maiale. Siano essi wurstel, salsiccia, costine al forno, cotechino, uno stufato. C'è chi lo fa anche con il cavolo rosso o viola, non ho ancora provato. Questa è la versione di insalata di cavolo cappuccio crudo, mescolato a radicchio a palla, dei radicchi ne parlo qui>>>Volevo vivere in un mondo di radicchi, condito con acciughe e capperi e olio buono. Sulle proprietà del cavolo sono talmente tante che c'è poco da aggiungere, certamente crudo è uno dei più importanti apportatori di vitamina C che si hanno a disposizione con la stagione fredda. Per le acciughe, nonostante i consigli che dispenso in questo post >>>Acciughe sotto sale, quest'anno non sono riuscita a farle, uso quelle dell'amico Michele di L'Anciua qui>>> che prepara anche delle bellissime confezioni regalo di tutti i suoi prodotti PRENOTAZIONI :MAIL A lanciua@libero.it o Solo messaggio WhatsApp al 348 003 9598 . Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze affascinanti. Se vuoi puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>>

  • DEI CUSCINI PROFUMATI E FATATI Herbal Sleep Pillows

    Or che i sogni e le speranze si fan veri come fiori, sulla Luna e sulla Terra fate largo ai sognatori! Gianni Rodari In questi giorni particolari dell'anno, tra l'altro così vicini al mio compleanno, lasciatemi sognare ancora un po'. Proprio perché gli anni inclementi passano, rimanere bambina nel mondo delle fate e della magia per qualche giorno all'anno aiuta, poi ci ci si sveglia e nel caso i sogni si realizzano. Un'altra cosa che si può fare con le erbe raccolte in queste notti del solstizio, sono i Cuscini Fatati. Potrei chiamarli solo Cuscini Profumati, ma nella tradizione le erbe sotto il cuscino avevano davvero scopi predittivi e taumaturgici, quindi perché non fatati? L'uso di accompagnare il sonno e non solo, di fanciulli, neonati, e ragazze da marito con erbe è antico come le stesse erbe e simile in tutte le latitudini. Ovunque anche qui, in Liguria, ad ogni bimbo appena nato venivano confezionati da mani esperte sacchettini e piccolissimi cuscinetti, contro malocchio, malattie e avversità chiamati "u breve", "u brevetìn" "u brevettu" ripieni di erbe secche, fra le quali sicuramente la Ruta e la Lavanda, e altro, che veniva sistemato nella culla ma anche indossato appeso tra i vestitini. L' usanza antica, venne ripresa anche dalla religione cattolica, tanto che questi "talismani" venivano confezionati da suore, con l'aggiunta di immaginette sacre. Se volete approfondire l'argomento, consiglio la lettura del bellissimo libro "Domanda al Vento che Passa", dell'amico Paolo Giardelli antropologo di campo, studioso delle tradizioni e delle società rurali, che ha raccolto negli anni tutte le testimonianze possibili su vita e costumi di una volta e trasportate in molte pubblicazioni. Qui un estratto: Per proteggere i più piccoli da disgrazie e malattie che potevano essere “gettate” su di loro si usava porre nei vestiti dei più piccoli un sacchettino, di preferenza di colore rosso, all’interno del quale erano posti da tre a cinque grani di sale e, se possibile, qualche foglia di ulivo benedetto la Domenica delle Palme. Il ricorso ai brevi, messi nelle fasce, cuciti nel lato interno delle maglie o appuntati con uno spillo al vestito, era molto diffuso in passato, quando non vi era l’assistenza sanitaria attuale e la mortalità infantile mieteva molte vittime: -“Gli mettevano “u brevetìn, un sacchettino al collo, che dentro c’era un cristetto, una madonnina, del lumìn Cristu del venerdì santo, perché dicevano che gli davano il malocchio. Il brevetìn era a forma di cuore, lo ricamavano con ago e filo, con un cordino per tenerlo al collo dei bambini. Dentro ci mettevano quelle cose benedette”-... Fino a poco tempo fa, ma probabilmente l’uso non è ancora del tutto tramontato, non erano soltanto i guaritori tradizionali a confezionarli, su ordinazione dei genitori che li avrebbero fatti benedire al momento del battesimo, ma lo stesso clero: il breve infatti richiama i brevia, citati nei trattati di demonologia, che erano (sono) preparati da sacerdoti e suore: “Le suore davano dei cuoricini, poi facevano dei sacchettini che si mettevano al collo del bambino. Il prete ci metteva un sacchettino al collo, perché dicevano che proteggeva dal malocchio. Ci metteva una crocetta di palma benedetta della Domenica delle Palme, un po’ di sale e altre cose”... Estrapolato da P. Giardelli, Domanda al Vento che passa, malocchio e guaritori tradizionali, Pentàgora Ed., Savona 2012 (per acquistarlo clicca qui>>>) - bellissimi brevettin, ritrovati di recente da un'amica in casa della nonna - Cito questa antica credenza, pressoché sparita, solo per chi la ricorda o per chi non la conosceva e il posto giusto per parlarne mi pareva proprio questo dove racconto del mio cuscino profumato che mi confeziono ogni anno, che conforta le mie notti, senza per questo cadere in fatue superstizioni. Ne avevo già parlato qui >>> L'origano gioia dei monti dove accennavo ai cuscini curativi di erbe, di Origano appunto per la cervicale, o il così detto Cuscino di Venere riempito di Achillea, Salvia e Sale grosso per i dolori mestruali. Nei vari articoli dedicati alle singole erbe ho spesso citato la tale o tal' altra erba messa sotto il cuscino per vari motivi e allora perché non raccoglierne un po' in questi mattine dense di rugiade speciali e forse finalmente un po' di aria calda, da fare poi velocemente seccare, per confezionarci il nostro cuscino personale, dove chiudere i nostri desideri e chissà favorire un sonno sereno? In fin dei conti cosa serve oltre alle erbe, raccolte magari durante una passeggiata la mattina presto, ricche della benefica rugiada? Solo un rettangolo di stoffa, cotone o lino, seta, fibre naturali, ovviamente, piegato e cucito sui due lati. Si può cucire facilmente anche a mano. Può anche essere un regalo per una persona cara, un vero "pensiero". Il leggero fruscio delle erbe e il delicato profumo accompagneranno i nostri sonni e sogni. Si raccolgono le erbe, anche più di una, diverse a secondo delle necessità, mescolate insieme, perché le proprietà si rafforzino. Cliccando sul nome della pianta porta direttamente al post dedicato ad ogni singola erba Lavanda per diradare l'ansia Rosmarino per un buon sonno rinvigorente anche delle capacità cognitive Alloro per un sonno ricco di sogni nel futuro Artemisia se proprio si vuole sapere tutto tutto Pioppo e Tiglio per un sonno tranquillo Achillea per sognare l' amato Cedracca per assorbire mali, dolori articolari, o anche solo farli sopportare meglio Iperico contro brutti sogni Timo per disinfettare Luppolo per calmare sognare sognare sognare Elicriso per trovar marito Sambuco per dormire insieme alle fate Felce sempre per favorire un sonno libero da tutti i mali, fosse pure un mal di denti e poi perché no la salvifica Salvia, petali di Rosa, e quanto di altro vi sembri meglio. Il cuscino più conciliante il sonno è sicuramente quello riempito con i coni di Luppolo Molte di queste hanno realmente proprietà rilassanti e probabilmente contribuiscono veramente a un sonno sereno. Una volta ben secche si sminuzzano con le mani o fra un telo premendo con un matterello di legno, senza usare marchingegni elettrici o meccanici che scaldando le erbe ne altererebbero le proprietà. Senza ridurre in polvere, eliminando gli steli più grandi che darebbero fastidio. Per la misura, da mettere sotto la testa, a letto preferisco una soluzione bassa da poggiare sopra o sotto il cuscino a secondo di quanto desidero godere del profumo. Ognuno può fare come meglio crede, tenendo presente anche la quantità di erbe che si posseggono. Riempito, si cuce sul lato rimasto aperto, e se si vuole si può fermare le erbe con qualche punto da parte a parte. Non va lavato, ma lasciato eventualmente ogni tanto al sole per eliminare l'umidità residua delle erbe e quella che può assorbire durante la notte dal nostro corpo. Tenuto con accortezza dura anche più un anno. Se non si riesce a raccogliere tante erbe o se sembra essere troppo profumato, si possono mescolare le erbe scelte in minore quantità con pula di grano, o di grano saraceno o ad avercela paglia di riso, il famoso Crine di una volta. Dimenticavo di parlare del Crine, usatissimo una volta per confezionare cuscini e materassi da appoggiare sotto al materasso di lana. A me bambina, amantissima dei cavalli, mi faceva specie tagliassero le criniere degli adorati animali per farne cuscini, fino a che un vecchio materassaio passato per casa, mi confortò spiegandomi che per crine in questo caso si intendeva Crine vegetale, solitamente paglia di riso, ma anche fibre di Palma, più specificatamente la Palma di San Pietro, comune nella macchia mediterranea, o anche alcune erbacee marine dette Crine marino. Crine vegetale in questo caso paglia di riso recuperata in un campo da un'amica Io stessa ho dormito fino a che non mi sono sposata su un materasso di lana appoggiato sopra ad uno di crine e la scelta di un vegetale per il materasso e di uno di provenienza animale, non era a caso. Lo stesso materassaio mi spiegò come era necessaria sia la lana che assorbiva umori e sudori del corpo durante la notte sia il vegetale dove questa li trasferiva, e quest'ultimo li tratteneva, altrimenti avrebbero finito per tornare fra le ossa di chi si riposava la notte dopo, raccomandandomi di non buttare i miei materassi di crine vegetale perché ritenuto un materiale pressoché eterno. Una spiegazione semplicistica, che però ritrovai anni dopo in una descrizione più scientifica, constatando come per l'ennesima volta i nostri vecchi fossero saggi, sostituendo nel caso la paglia con gli "scartocci di granoturco" le foglie delle pannocchie di mais, più deteriorabili, attaccabili da animaletti, e presto abbandonati al primo bagliore di progresso. Ora si torna, con le dovute precauzioni, ai materiali vegetali, il lattice stesso, quello vero lo è, e si trovano materassi in fibra di cocco, crine e altro, consigliati per le proprietà isolanti e di traspirazione. Ah l'estate! Una volta cominciava quando mettevi il materasso di crine sopra a quello di lana, per godere di un fresco naturale. Kapok lavato e recuperato e mescolato alle erbe per fare i cuscini Un'altra fibra vegetale dimenticata è il Kapok, morbidissima e leggerissima, la fibra più leggera al mondo che si ottiene dai semi di Ceiba pentranda, un albero dei paesi più caldi. Una volta si facevano le imbottite, le coperte spesse e trapuntate che si usavano prima dei piumini e che costavano meno. Tranquilli, se il riferimento alla magia può non essere nelle corde di tutti, gli Herbal Sleep Pillows vanno tantissimo di moda e si trovano da comperare su internet a prezzi molto interessanti, tanto da convincerci a farceli da sole, come si trovano facilissimamente per esempio quelli di Lavanda sui mercatini, questi a prezzi più modesti. Buon lavoro e ... sogni d'oro... anzi no ... verdi sogni dorati tranquilli e profumati. Che strana macchina è l’uomo. Gli metti dentro lettere dell’alfabeto, formule matematiche, leggi, e doveri ed escono favole, risate e sogni. Fabrizio Caramagna Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze affascinanti. Se vuoi puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>>

  • O CHÉUSSO, LA ZUCCA A FIASCO

    Quest'anno la mia zucca di Halloween è stata proprio quella della tradizione nostra, dei miei nonni, dei miei zii che la intagliavano per spaventare le sorelle agli inizi del '900 e più tardi mia madre, un po' per dimostrare per l'ennesima volta come le zucche intagliate e festa compresa, non siano un'importazione dall'America, ma una tradizione dimenticata di ritorno, quando si è capito che si poteva mercificare. Per avere l'occasione di parlare di questa particolare zucca, quasi dimenticata, dopo essere stata presente nella vita quotidiana dell'uomo da migliaia di anni, in Liguria come in tutte le parti del mondo. Conosciutissima, chiamata chéusso, cossa, cusso, cösso e chi lo sa in quanti altri nomi, cresceva sulle téupie, le pergole che ogni casa di campagna aveva davanti all'uscio, insieme all'uva merella, l'uva fragola. foto dal web Talmente antico il suo uso che non si riesce nemmeno a rintracciarne l'origine, uno dei primi ortaggi coltivati, pare addirittura prima del frumento. Tracce ne sono state trovate fino a 13000 anni fa, sia in Africa, che in Cina ma anche in Messico, tutti i popoli ne hanno e ne fanno uso. Il suo nome botanico è Lagenaria siceraria, della famiglia Cucurbitacee, unica zucca presente prima della scoperta delle Americhe, quando arrivarono le altre, sempre stessa famiglia ma genere Cucurbita. Contrariamente a quanto si pensa è commestibile da giovane, una varietà, la Lagenaria longissima o Serpente di Sicilia è molto conosciuta al sud, e i suoi germogli chiamati tenerumi apprezzatissimi in zuppa. foto dal web Difficile possa venire in mente di mangiarla matura, la polpa di consistenza schiumosa è un purgante e un emetico e la buccia dura. Secca è leggera ed è stata usata come galleggiante per le reti e anche per imparare a nuotare. Seccando diventa come legno e da sempre l'uomo ha pensato che svuotandola dei semi e dei residui di polpa secca aveva a disposizione un recipiente ottimo per i liquidi acqua e vino, ma anche per farine, tabacco e simili. L'origine del nome viene dal greco lagenos che significa fiasco e l'uso antico è dimostrato nelle frequenti raffigurazioni in dipinti e statue. Specialmente nell'iconografia dei Santi, la Lagenaria è rappresentata quando si tratta di santi pellegrini come per esempio San Rocco e San Giacomo. Si usa anche una forzatura nella crescita per farla rimanere piatta come la più classica borraccia piatta In Cina è simbolo dei farmacisti in quanto vi venivano riposti erbe e rimedi vari. Svuotata e divisa, modellata, diventava recipiente, mestolo. Qui veniva usata per per concimare gli orti con la chintànn-a... e separare l'olio dall'acqua e i miei nonni che in tempi più moderni ne ebbero uno di lamiera, continuarono a chiamarlo cossu, mi ci volle un po' di tempo per capire che il nome veniva direttamente dalla zucca, Nel libro sotto come trasformali in utensili di uso quotidiano https://www.amazon.it/Historic-Gourd-Craft-Traditional-Vessels/dp/0764328301 Prima ancora di pensare a svuotarla, semplicemente scuotendola, secca con i semi dentro, l'uomo scoprì uno dei primi strumenti musicali. Le vere Maracas ancora oggi sono fatte spesso con una zucca dipinta. In seguito zucche svuotate sono state usate come cassa armonica, uno dei Sitar indiani, Kaccapi vina, è fatto con una lagenaria svuotata e sei corde, e pure il Berimbau, strumento tribale emigrato dall'Africa con gli schiavi e diventato indispensabile elemento della Capoeira brasiliana. Non ci è voluto molto per pensare a decorarle e quindi dipinte, incise, disegnate sono diventate elemento decorativo di arredo. Qualche esempio in foto, ma si può trovare di tutto. Chi di noi, di una certa età, non ha avuto un presepe in una zucca? Non privo della giusta rilevanza, l'uso, comune in tutte le parti del mondo, che ne fanno alcuni gruppi etnici come astuccio penico, la Koteka. Dall'Africa al Nord America, ancora oggi in Papua Nuova Guinea gli uomini usano la parte opportuna della zucca essicata e svuotata a protezione del pene, tenuto con una cordicella di palma, dando a questo indumento, l’unico spesso indossato, simbolismi particolari, tipo protezione contro gli spiriti maligni a tutela della propria fecondità e decorato in maniera diversa a secondo dell'occasione nella quale viene messo caccia, danza, eventi sociali. Ultimi, ma forse chissà non ne trovo altri, l'uso nell'orto per allontanare roditori e istrici e quello nella medicina popolare L'odore delle foglie di una varietà, la Lagenaria Mayo Giant, sembrerebbe essere sgradito e quindi in un orto a carattere familiare, una pianta di Lagenaria, opportunamente cimata per non sopraffare le altre coltivazioni, potrebbe tenere lontano fastidiosi visitatori notturni. Ho già scritto della polpa che ha effetti purganti e emetici, e un impiastro con le foglie pari curi il mal di testa. -foto da Actaplantarum- Mi resta da fare una piccola considerazione personale. Al di là degli innumerevoli impieghi di un qualcosa che cessato l'uso ritorna alla terra, alla natura, senza lasciare traccia, mentre per tutte le cose che si possono fare si spreca spesso plastica, chi mai ci restituirà la fantasia, l'inventiva, che una semplice zucca in tutto il mondo ha saputo suscitare? Qualche anno fa, quando per curiosità un amico le aveva seminate, me le portò dicendo che nessuno sapeva cosa farne... Servirà l'intelligenza artificiale? Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze affascinanti. Se vuoi puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>>

  • DI SCOPE E DI STREGHE

    Passando appena fuori del paese lo sguardo al campo sotto strada rivedo il Sorgo che cresce, seminato tardi e tagliato verde per essere usato come foraggio fresco alle mucche e mi è venuto voglia di parlarne per chi non lo ricorda più. Il Sorgo un tempo era molto usato e non solo per le bestie, a dir la verità è ancora molto usato, essendo il quarto o il quinto cereale coltivato al mondo, questo ha portato ad una selezione delle specie per l'alimentazione umana o per quella animale, solo in Italia ne sono coltivate circa 115 varietà, e ne esiste anche inselvatichito. È pianta resistente alla siccità, alle malattie, e per questo molto usata, per esempio in Africa. Assomiglia vagamente al granoturco, pianta alta con foglie larghe e piatte e infiorescenze a spighette, che contengono i semi, la granella. È un cereale e come tale usato per farine dall'epoca greco-romana, conosciuto come melica, sostituito poi dal mais tanto da far rimanere questo vocabolo "melica" nella parlata volgare, per identificare il granoturco, o almeno qui è così, la meliga, contratto poi in mega, è nel nostro dialetto, il mais. Non contiene glutine e oltre la macinatura per polenta, pane, pappe, può essere usato in granella come il riso, ormai reperibile solo nei negozi di alimenti naturali. Ma la voglia di parlarne mi è venuta non per l'uso alimentare, ma per un'economia basata su questa pianta e ormai praticamente sparita: la fabbricazione delle scope. Da strega qual sono mi sembrava giusto parlarne. La Saggina, il materiale con il quale erano fatte gran parte delle scope fino a una cinquantina di anni fa, è il sorgo, o meglio nella tradizione popolare il sorgo veniva chiamato e usato come saggina. Il termine Saggina o anche Scagliola è però usato anche per le piante acquatiche del genere Phalaris. Di questa stagione, tolto il seme, si vedevano appesi nelle campagne i mazzi di sorgo a seccare, e nell'inverno gli uomini fabbricavano le scope che dovevano durare il più possibile. Le scope non erano solo di saggina ma di brugo (qui>>>dell'erica e del brugo) , di ginestra, di tamerice, di sanguinello, di betulla, di scoparia, e altre piante, ma soprattutto non erano altro che un ramo al quale veniva legato semplicemente un mazzo dell'erba scelta. Poi, un giorno del 1797, a Hadley nel Massachusetts, tale Levi Dickenson, contadino, rivoluzionò il mondo delle pulizie casalinghe assemblando un certo numero di mazzi di sorgo in maniera piatta legandoli con del salice, inventando così la Scopa di Saggina, così come è ancora conosciuta adesso. Fu la pubblicità che sua moglie fece alla scopa presso le amiche, a far sì che egli ne fece un mestiere inventando pure una macchina per assemblarle. Oggi la produzione è prettamente affidata ai paesi dell'Est da dove provengono praticamente quasi tutte le scope di saggina, anche se in tutti i paesi contadini d'Italia esiste la conoscenza di chi in passato fabbricava manualmente scope e anche musei che ne raccontano la storia. Fino a qualche anno fa, in provincia di Lucca esisteva l'ultimo artigiano che fabbricava ancora le "granate", come sono chiamate in Toscana le scope, appunto da grano, ricordando il sorgo che è cereale usato come il grano . Nel video a questo link potete vedere tutta la lavorazione: https://www.youtube.com/watch?v=G5AQvKBRR64&ab_channel=NoiTvLucca Prima del Sorgo molte altre piante venivano usate per fare le spasoîe, le Urxe, Uxe, Úrscia, Uexie, nomi in dialetto dell'Erica arborea, (dopo un milione di anni che abito qui, non riesco ancora a pronunciarli bene), di brugo, di Erica scoparia, e ancora adesso di queste erbe sono fatte quelle per pulire la cenere del sō, il rialzo nella grae, gré, il seccatoio, dove si cuoceva il pane e le torte sotto il testo qui>>>https://www.lellacanepa.com/single-post/2017/11/28/paneprofumo-di-pane Oggi, giornata fresca di tramontana, ma soleggiata, ho fatto un giro per fotografare qualche pianta e per raccogliere qualche ramo. Intendo fare qualche piccola scopina da regalare per le prossime feste per scacciare via tutti i cattivi pensieri e tutto quello che questo anno ha portato, c'è davvero molto da scopare via. Fino a qualche decennio fa, chi ha tanti anni come me, ricorda un uomo che girava nelle campagne per acquistare le ciocche, i ciocchi, le radici di questa, l'Erica arborea, che dovevano essere scelte con cura per fabbricare le pipe, e anche questo rappresentava un piccolo guadagno per i contadini che sapevano quali cavare. La pianta deve avere dai 50 ai 70 anni per produrre il ciocco, la radice ottimale. La pianta resiste agli incendi, rispuntando ed è per quello che è adatta alla costruzione delle pipe, ma per essere usata la sua radica non deve aver subito incendi in quanto il calore rovina il prezioso rizoma, deprezzandolo. Frequentissima nelle macchie mediterranee a ridosso del mare è presente in tutti i boschi anche qui, spesso sui poggi a fianco la strada. Tornata a casa con l' Erica, l'ho tagliato quattro o cinque pezzi, uno un poco più grande e diritto, poco filo di rame. Ho rifinito con qualche fiore secco di Achillea, di Romice, un pezzo di cannella vecchia, un pignetta raccolta chissà dove, un cuoricino di feltro, il biglietto con l'augurio di scopare via tutte le negatività, ago filo e ad essere moderni colla a caldo... ma è solo una prova. Ora deve seccare e perderà gran parte del verde diventando una scopina da streghetta, penso che possa essere un bel chiudi pacco. Ti mettiâe ou brûggu réddenu'nte 'n cantùn Che se d'â cappa a sgûggia 'n cuxin-a á stria A xeûa de cuntà 'e págge che ghe sun ... A çimma ... metterai la scopa diritta in un angolo, che se dalla cappa scivola in cucina la strega, a forza di contare le paglie che ci sono ... E la scopa, di saggina o altro, da tempo immemorabile è collegata alla magia, alle streghe, alle superstizioni, a tradizioni ecc. ecc. Difficile arrivare all'inizio di tutto ciò, pare che maestri, sciamani, guaritori in tutto il mondo, abbiano sempre avuto una sorta di bastone in mano, alla stessa erba aggiunta a questi bastoni erano sempre dati poteri magici o di sacralità, vedi la ginestra per esempio, e questo in tutte le culture, anche se era palma da dattero. Il fatto poi che scopando si togliesse l'immondizia, la sporcizia, aggiunge simbolismo. Tutti sappiamo di tradizioni di balli e di chi rimane con la scopa in mano, o la malignità di scopare i piedi alle ragazze nubili così che non si sposassero, o di riti di matrimonio saltando la scopa, o di non scopare dopo il tramonto per non scopare via la fortuna. I versi della canzone sopra ricordano la credenza popolare di mettere una scopa a testa in sù vicino al camino, perché la strega che volesse entrare sarebbe costretta a contare i fili che la compongono e quindi a perdere tempo. -Donne valdesi raffigurate come streghe, miniatura da un manoscritto di Martin Le Franc, Le champion des dames, 1451- Tanto importante la simbologia affidata alla scopa che da strumento delle streghe si riesce a trasferirle il potere di tenerle lontane, vedi le scopine augurali variamente decorate che si usano regalare nelle festività natalizie proprio per spazzare via i mali e le sfortune e impedirne il ritorno. Appunto la strega ... il primo attestato storico che parla di un qualcuno a cavallo di una scopa è del 1453, ma ops... era un uomo Guillaume Edelin, priore e pare amante del diavolo. Anche se ci sono testimonianze più antiche di cavalcate con la scopa, lo stesso Pitagora, pare sconsigliasse di cavalcarne una. Sorvolo sul significato fallico dato al manico di scopa, cavalcato dalle streghe, che ha portato poi a usare il termine per definire anche l'atto sessuale e relegato l'uso alle streghe in quanto donne, ma anche i maghi ve lo dico qui, cavalcano scope per recarsi ai sabba. Per conoscenza aggiungo che la Befana, nulla a spartire con le streghe e meno che meno simbolo sessuale, proprio per questo inforca la scopa con la "spazzola" sul davanti, al contrario di come si vede, ahimè, in quasi tutti i disegni in giro. Resto dell'idea che tutto ciò derivi dal fatto che lo strumento scopa era presente in tutte le abitazioni e munito di bastone servisse come unica arma presente, e le streghe, donne sempre povere che usano erbe, cosa potevano avere velocemente alla mano? Le fate, solitamente ricche, per niente girano in carrozza e hanno la bacchetta magica dorata... L'uso della scopa come simbolo è talmente legato all'uomo, ma ci veniva comodo dimenticarlo, che il riconosciuto popolo dei Metis, i discendenti dei primi coloni nelle terre degli indiani d'America che con loro si unirono, ne portano la tradizione in un ballo tutto maschile. A questo link per vedere come è la Broom dance: https://www.youtube.com/watch?v=4UgwRj-JDSk&ab_channel=MetisPrairieSteppers Per conoscenza mi piace riportare che il famoso gioco di carte chiamato "scopa" si chiama così perché il punto si prende proprio lasciando il tavolo pulito, come fosse spazzato. Scopa nuova scopa bene ma scopa vecchia conosce tutti gli angoli 😜 Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze affascinanti. Se vuoi puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>>

  • DOLCETTO O SCHERZETTO?... O CALDARROSTE ALL'INFERNO?

    è l'è de' vivi che bisogna avè paura, no de' morti..! Gli zii di mia mamma intorno agli anni 20-30 del '900, nelle sere che precedevano l'uno e il due novembre, tentavano di impaurirla con una candela accesa infilata in una zucca intagliata, raccontandole di morti che per una notte ritornano tra i vivi e lei ne conservava un ricordo poco piacevole. Questi zii, oltre a non essere mai stati in America, erano cattolici praticanti, uno organista e l'altro campanaro, per tutta la loro vita, in una delle basiliche più belle di Liguria, la Basilica dei Fieschi, tanto da essere chiamati "I Parrocchia" come soprannome di famiglia, quindi impensabile un rito di sfregio alla loro religione. Qui, alta Val di Vara, ancora negli anni '50, prima della grande ultima emigrazione verso le americhe e le fabbriche, i giovani vagavano di casa in casa mascherati per chiedere un'offerta di cibo per i propri morti. In realtà in tutta Italia, senza scomodare altri paesi stranieri, ma un po' dappertutto è così, la fine dell'estate e quindi l'inizio del buio invernale venivano salutati con rituali che ricordano gli spiriti dei defunti, i poveri chiedevano qualcosa da mangiare a chi più ricco aveva accumulato più provviste per l'inverno e l'intenzione è sempre più o meno quella di accogliere con qualcosa i propri cari trapassati che per una notte tornano sulla terra, ai quali si accende una luce, che sia in una zucca, in una rapa o semplicemente una candela sulla finestra o un lumino acceso in casa. Dalla festa celtica di Samhain alle Parentalia romane si è arrivati al nostro Ognissanti e Festa dei defunti ... i miei ricordi di bambina sono nei lunghi rosari serali nella basilica a San Salvatore a far sciogliere gli Offiçiêu, con attenzione a non sporcare e bruciare la panca della chiesa. Questi offizieu o"mucchetti", propri della tradizione ligure, sono una sorta di lungo cerino avvolto attorno a delle forme in legno, che simulano piccole borsette, fiaschetti, cestini, scarpette, ecc. che venivano accesi e lasciati consumare durante il rosario serale di questo periodo. Facevano bella mostra nelle vetrine di pasticcerie e drogherie, e fra bambini era gara a chi aveva il più bello, il più grande. Spariti come tante altre cose, non c'è più nessuno che li fa e che li usa, i miei figli non ne hanno mai visto o acceso uno. Davanti ai negozi de tûtti i speziæ, esposti in bell'ordine pe mettine coæ gh'è un mûggio asciortio de belli offiçieu delizia, sospio de tanti figgieu Nicolò Bacigalupo Se posso comprendere il fastidio di qualcuno nei confronti della mercificazione di queste usanze, meno capisco chi non ricorda da dove arriva davvero tutto ciò e non certo dall'America. Nel dopoguerra, e io da lì vengo, abbiamo volutamente accantonato e dimenticato usi e tradizioni, modi di fare e di dire, cibi che ci ricordavano la povertà, la campagna, assettati di modernità e industria, che ci rappresentavano e adesso non riconoscendoli li chiamiamo addirittura strumenti del demonio... Meglio sarebbe, se si vuole davvero sapere cosa è Halloween, lo si chiedesse alla nonna, senza nemmeno scomodare i Celti. Gli uomini di tutti i tempi hanno sempre avuto paura del buio invernale che si avvicina in questa stagione e con qualsiasi rito cercavano di conservare e omaggiare la luce sperando che questa tornasse la primavera successiva. -foto dal web- Nel nord dell'Europa i bambini facevano e fanno processioni di lanterne intagliate nelle rape, chiedendo offerte per i defunti e ogni paese ha la sua leggenda, ma tutte riportano ai morti che tornano per una notte. Per la facilità con la quale si trovavano più zucche che rape i primi emigranti in America iniziarono a intagliare quelle. Non è obbligatorio sottostare alle regole di mercato, si può sempre come me continuare ad intagliare la zucca dell' orto, a mettere candeline e cere ( se potessi avere ancora uno dei nostri offizieu! ) nella speranza che per una sera i miei morti ritornino, fosse possibile vederli ancora una volta! Proverbi liguri ricordano che "Ognissanti senza becco, Natale poveretto" o "Pe i Morti, bacilli e stocchefisce no gh’è casa che no i condisce" dai quali si capisce che tradizione vuole un qualche volatile in tavola, che poteva essere il gallo, la faraona o altro da eliminare nel pollaio prima dell'inverno, o anche il bottino del cacciatore di casa, fagiano o (ahimè!!!) uccelletti, così da riservare le carni più pregiate del maiale a Natale. Oppure lo Stoccafisso con i bacilli, ovvero un legume tipo una piccola fava secca, praticamente introvabile, che negli ultimi anni è ricomparso con il nome di Favino, qui da me con le fagiolane, i grandi fagioli di Spagna, semplicemente bolliti e conditi con il primissimo olio nuovo. In casa mia non c'erano grandi tradizioni culinarie per questo periodo, se non forse per i ceci o a volte fagioli a zimin, del quale ho già scritto qui>>>A Zimino . - zimino in cottura - Certamente erano i giorni delle castagne, nella tradizione fatte a "balletti", le castagne bollite con la buccia, ma ricordo con più piacere le serate fra ragazzi, qui, a fare le "Rustie all'inferno" caldarroste, spolverizzate di zucchero, innaffiate di grappa e accese poi sempre mescolando. È d'obbligo spegnere la luce durante il procedimento così da godere dello spettacolo, o almeno così a noi sembrava, ci si divertiva davvero con poco. Sempre perché ci si divertiva con quello che si aveva, finì in canzoncina la serata fra ragazze del dopoguerra che non avendo la grappa un po' ne chiesero ai giovani, i quali per vendicarsi di non essere ammessi al divertimento, offrirono una bottiglia di acqua al posto della grappa che alla fine non bruciò annacquando miseramente le castagne. Quando furono nel piatto pronte ben bagnate continuarono per mezz'ora a mescolar ma l'acqua dei Ghiggeri non volle mai bruciar La ricetta, con qualche attenzione, è quanto di più facile ci sia. Fatte le caldarroste, si sbucciano il più velocemente possibile cercando di tenerle in caldo. Si sistemano in una pirofila, si mette qualche cucchiaiata di zucchero, un bicchierino di grappa, si mescola e CON ATTENZIONE si dà fuoco, sempre mescolando. Bruciato tutto l'alcool si gustano le castagne così condite, quasi caramellate. Se proprio non c'è altra soluzione, è possibile fare qualcosa di simile a delle caldarroste nel forno o nel microonde, e ci sono decine di modi diversi. Uno è quello di praticare il solito taglio nella parte rotonda, mettere le castagne tagliate a bagno per 10 minuti in acqua tiepida, mettere sul piatto del microonde e far andare per cinque minuti alla massima potenza. Un sistema veloce per fare una minima quantità di castagne per una - due persone. Se se ne devono fare di più, dopo l'ammollo, si asciugano e si passano in forno a 180° per una mezz'ora, mescolando spesso. In entrambi i casi, a fine cottura, si mettono dentro ad un sacchetto di carta ben chiuso o in uno strofinaccio, per cinque minuti, in modo da poterle sbucciare bene. - castagne all'inferno - Per vedere la lavorazione degli Offiçêu qui: https://www.facebook.com/1819865669/videos/10205452045940129/ Per saperne di più sulle tradizioni italiane antiche di zucche intagliate e regali dolci ai bambini qui: https://www.thinkdonna.it/festa-ognissanti-commemorazione-dei-defunti-tradizioni-italia.htm?fbclid=IwAR1aN2r3aCS_WahxRUKOcWGktFrJYrkpUfYPXskK-jYR5wJAyLm0b4163Zw# Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze affascinanti. Se vuoi puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>>

  • DUE MARRONI...

    Che sia questa la mia svolta nella volgarità più becera? Quando mai! No! Intendo parlare proprio dei marroni, la castagna che l'uomo ha sapientemente coltivato, innestato, selezionato per ottenere un frutto più liscio, più grosso e più facile da sbucciare. Le differenze si comprendono bene con l'immagine sopra. Una castagna, se pur di dimensioni ragguardevoli, vicino a un marrone è di dimensione più piccola, ma soprattutto l'interno della castagna è arzigogolato in numerose pieghe dove si infila la pellicina mentre il marrone è liscio e quindi risulta molto più facile da pelare. Un Regio decreto del 1939>>> stabilisce la differenza fra castagne e marroni, come confezionarli e come spedirli, e di quanti frutti deve essere composto un chilo. La foto non fa sentire il gusto, se pure più neutro, cioè alcune varietà di castagne possono sembrare più saporite, ma il marrone è almeno il 20% più dolce di una castagna normale. Ragion per cui l'uso più scontato è quello nei dolci e quindi Marron Glacè e Mont blanc e marmellata. Il prezzo è purtroppo un elemento deterrente, perché molto più caro della comune castagna, quando poi non succeda purtroppo di trovarle bacate, ed è per quello che dopo una brutta esperienza non ne ho mai più comperato. Tanti anni fa un amico piantò pochi alberi di marroni non lontano da casa mia e mi chiedeva tutti gli anni di andare a vedere se le nuove piante avessero cominciato a produrre. Stamattina mi è tornato alla mente, e vista la buona produzione di castagne, anche grandi, mi sono decisa ad andare. Lui non c'è più, ma le sue castagne c'erano, grosse, belle e sane. È stata un'emozione trovarle e pensare a lui, grande amico della mia adolescenza. Purtroppo non ci è stato concesso di mangiarle assieme e negli anni scorsi, dopo la sua scomparsa, fra il cinipide, la siccità, la scarsa produzione, un po' di malinconia, non ero più andata a vedere. Nonostante qualcuno ci avesse pensato prima di me, qualcosa era rimasto. Giusto quelle da fare qualche marron glacés e forse un cucchiaio di Mont blanc... MARRON GLACÉS CASALINGHI Come sempre fatti un po' a modo mio Ho tolto la buccia esterna, l'ho messi in acqua fredda e ho bollito una quindicina di minuti. Pelate molto facilmente da calde, ho preparato uno sciroppo di zucchero fatto con 250gr di acqua e 250 di zucchero. L'acqua deve coprire bene i marroni, si pesa e si aggiunge lo stesso peso di zucchero. Si mette al fuoco, si possono aggiungere i semi di una bacca di vaniglia, si fa bollire per cinque minuti, si mettono le castagne pelate una a una delicatamente e si fanno sobbollire per un minuto. Si spegne. Si copre e si lascia tutto lì per 24 ore. Si tolgono le castagne, si rifà bollire lo stesso sciroppo e si immergono di nuovo facendo bollire per un minuto. Si spegne e si copre per altre 24 ore e così per almeno 4 volte in totale. Al quarto giorno si mettono a raffreddare su una gratella. Se nel corso delle operazioni se ne rompe qualche pezzo non importa, sono buoni lo stesso e servono per decorare il Mont blanc. È possibile rifinirli sopra con un glacé fatto con poco sciroppo avanzato e zucchero a velo mescolati. Se dovesse avanzare dello sciroppo anche quello può essere conservato e usato per dolcificare qualsiasi cosa. MONTBLANC A MODO MIO A modo mio perché trovate casualmente le castagne l'ho arrangiato con quello che avevo in casa, e per fortuna avevo una confezione di panna fresca. Per questa ricetta ho provato a cuocere i marroni in maniera diversa della precedente. Incise, l'ho messe a cuocere per in acqua fredda per una quindicina di minuti, poi l'ho pelate. Tutto sommato ritengo meglio il metodo di sbucciare prima le castagne, farle bollire e poi pelarle. Una volta pelate facilmente, ma nel caso di questo dolce anche dovessero rompersi non ha molta importanza, visto che poi vengono passate, le ho messe in una pentola con del latte e zucchero. Avevo inizialmente circa 250gr. di castagne con la buccia, ho aggiunto circa 300ml. di latte e 50gr. di zucchero, un cucchiaino di estratto di vaniglia o i semi di una bacca e ho fatto bollire piano per una ventina di minuti, facendo molta attenzione che assorbissero tutto il latte e non bruciassero. Devono diventare morbide tanto da poter facilmente essere schiacciate anche con una forchetta. Se dovesse mancare il latte va aggiunto fino a che le castagne non sono cotte bene. Con uno schiacciapatate, con un passaverdura o con quello che si vuole ridurle a una purea consistente. A questa purea le ricette prevedono l'aggiunta di qualche cucchiaio di cacao amaro, non l'avevo, ho sciolto poco cioccolato fondente e ho messo quello, più un cucchiaino di rum. Ho mescolato tutto bene. Ho formato con la purea una montagnola su un piatto, rigandolo con una forchetta, non mi piace fatto come viene passandolo nello schiacciapatate, a vermicelli, e mi piace più morbido, giusto quel tanto che stia su. Una generosa porzione di panna fresca montata al momento sopra, pezzetti di cioccolato fondente e amaretti rotti perché non avevo la meringa, che si trova spesso nelle ricette, ma ci stavano benissimo. Marmellata di Marroni Ho già fatto la marmellata di castagne altre volte, certo con i marroni è tutto più facile. Pare che il metodo migliore per pelarle bene sia quello di inciderle con un taglio, metterle a bagno per mezz'ora, farle cuocere in acqua bollente per 4 cinque minuti, e poi asciugate bene su una padella calda. Procedimento da fare poche castagne alla volta. Una volta pelate si pesano, si rimettono in pentola, si coprono d'acqua e si fanno cuocere per almeno mezz'ora, 35 minuti, fino a che non si spappolano e l'acqua è quasi tutta consumata. Si frullano con un mixer o con un robot fino ad avere un composto liscio. A questo punto, tenendo a mente il peso delle castagne pelate, si aggiunge 600gr di zucchero a chilo e si fa cuocere con molta attenzione girando spesso fino a che non si ottiene la consistenza di una marmellata che vela il cucchiaio. Alcune ricette prevedono metà zucchero integrale, alcune un aggiunta di estratto di vaniglia, altre rum. Per una volta, cosa che non faccio mai con le mie marmellate, ho bollito per venti minuti i barattoli dopo averli chiusi, perché mi è successo che la marmellata di castagne sia più deperibile di altre e dopo tanto lavoro sinceramente dover aprire e trovare della muffa... E SE LE CASTAGNE NON CE L'HAI? Se non ce l'hai te le fai finte. Biscotti a forma di castagna fatti con una parte di farina di castagne e immersi nel cioccolato fondente Ne avevo giusto un rimasuglio in frigo e per completare il post ne ho fatto qualcuno. Gli ingredienti semplicissimi: 60gr. di burro ammorbidito 50gr. di zucchero a velo un uovo piccolo (ma si può fare senza) 80gr. di farina di castagne 60gr. di farina 00 cioccolato fondente per finire i biscotti Mescolare zucchero e burro ammorbidito, unire l'uovo e poi le due farine, fino ad ottenere un impasto morbido. Lasciar riposare per mezz'ora. Riprendere l'impasto e formare delle palline, appiattirle da un lato e creare una punta per assomigliare la forma a una castagna. Cuocere in forno a 180° per una ventina di minuti massimo mezz'ora. Lasciar raffreddare, sciogliere il cioccolato a bagnomaria e immergere i biscotti con la punta lasciando scoperto il fondo. Altre ricette sul blog con le castagne qui: IL CASTAGNACCIO DOLCE O SALATO>>> PAN MARTIN>>> DELL'USO DELLE FOGLIE DI CASTAGNO>>> STRUDEL DI FARINA DI CASTAGNA>>> PASTA FRESCA DI FARINA DI CASTAGNA>>> CALDARROSTE ALL'INFERNO>>> I CÀSSARILEU>>> Diverse varietà di marroni sono coltivate in Italia e hanno l'Igp o altri prestigiosi riconoscimenti, come si può leggere sulla Gazzetta Ufficiale di cui sopra, fin da allora sono nominati come gli unici a essere riconosciuti di categoria AAA quelli di produzione della Campania " i marroni di Napoli" che addirittura erano 48 in un kilo. Ma Toscana con il Marrone del Mugello, Veneto con i Marroni di San Zeno e quelli del Monfenera e i Marroni di Combai, Emilia Romagna Marroni del Castel del Rio, i Marroni della Val di Susa, nel Cilento i Marroni di Roccadaspide, e in Irpinia quelli di Serino e chissà quanti non so. La castagna una volta si mise in dosso una sua veste orrida, spinosa, spiacevole, coprendosi tutta insino al volto, talché li viandanti non ardivano toccarla, anzi detestandola la schifavano. Passando per la selva Autunno, la pregò che ‘l volto si scoprisse e dicessegli chi ella era. Il che fatto, e la sua grata condizione conosciuta: – Quanto son pazzi li omini – disse Autunno – che da la vista di fòra de l’altrui condizione fanno iudicio! - Pandolfo Collenuccio - A CANDIDO Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze affascinanti. Se vuoi puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>>

  • LA PERDUTA 🌿 😃

    Come dimenticare quel giorno dal bezagnìn con mia madre, quando una "forèsta" nel tentativo di tradurre e parlare italiano chiese: - Ce l'ha un po' di perduta?- Noi, a bocca aperta, e il fruttivendolo, in risposta, con cocina pesantemente genovese: -Scignôa, sciâ vuéiva in po' de pèrsa?-, -Signora, voleva un po' di Maggiorana?- Eh sì, perché la "Pèrsa" è chiamata così in Liguria, e in dialetto ligure persa significa perduta, mentre nel caso dell'erba si dice Pèrsa da Persia, o della Persia, luogo da dove si pensa arrivi questa profumata erba aromatica, regina assoluta della cucina ligure. Qui la Pèrsa non la perdiamo per niente, non c'è ripieno che non la contenga, insieme al basilico è il profumo inconfondibile della Liguria, siamo oudù de mà, misciòu de pèrsa lègia (odore di mare mescolato a maggiorana leggera), Fabrizio De Andrè docet. Ai foresti, quelli di fuori, sembra uguale sia per il portamento che per l'odore all'origano. Forse sono quelle cose che si imparano da bambini, non so, ma per me è impossibile confonderla, anche se somigliante. In realtà appartengono tutte e due allo stesso genere Origanum vulgare L. uno, e Origanum majorana L. l'altra. Difficile trovare qui la Maggiorana spontanea selvatica, da sempre è coltivata su ogni terrazzo, in ogni giardino o orto, mentre facilissimo imbattersi in estate in profumati cespugli di origano nei prati. Per quanto riguarda l'aspetto, molto simile, potrei dire che la Maggiorana è una pianta più leggera e morbida mentre l'origano più alto e slanciato quasi a cespuglio eretto. Le foglie, forse più piccole e pelosette quelle della Maggiorana e di colore quasi di un verde cenere. Il profumo più intenso e aggressivo quello dell'origano, un'aroma più delicato e rotondo quello della Maggiorana. Quello che le differenzia maggiormente è il fiore, molto diverso da quello dell'origano: Questo si intensifica con l'essiccazione, che si ottiene appena spuntano i fiori, tagliati i rami e sistemati appesi dentro a un sacchetto di carta all'ombra. Quando secchi si eliminano i rametti e si conservano le foglioline in un contenitore. Usata per confezionare sacchetti per profumare la biancheria, in tisana con il miele preserva la voce, ma blocca pure le fermentazioni e il meteorismo intestinale e placa le eventuali contrazioni dolorose, e anche il mal di testa. E' usata perfino nell'industria cosmetica. Nella cucina ligure è presente ovunque, sbriciolata in qualunque ripieno, della cima, dei pansoti, delle torte di verdura, di carciofi (qui>>>) nelle frittate, nella minestra di reginette (un tipo di pasta) e uova, nel pesce.... Si usa più spesso secca ma in estate io la preferisco fresca, insomma si mette dappertutto, impossibile perderla... Non tutte hanno lo stesso profumo, penso dipenda dalla qualità o anche dalla terra dove si coltiva. Personalmente ne ho sempre due piante, una con un aroma meno intenso, una varietà antica locale, di quelle che ti passi il rametto (talea) tra vicine di casa, ma che non muore mai, sparisce in inverno, per ributtare in primavera. Un altro tipo la compero sui mercati o nei garden annusando vaso per vaso finché non trovo quella che mi piace di più. Questa ultima difficilmente riesco a tenerla fino alla primavera dopo o al massimo per due stagioni. Sempre da pettegolezzi tra comari ho scoperto che per averla rigogliosa bisogna usare terra acida, tipo quella specifica per le azalee. "... àia de lùn-a vègia de ciaèu de nègia ch'ou cègu ou pèrde ‘a tèsta l'àse ou sentè oudù de mà misciòu de pèrsa lègia cos'àtru fa cos'àtru dàghe a ou cè..." "...aria di luna vecchia di chiarore di nebbia che il chierico perde la testa e l'asino il sentiero odore di mare mescolato a maggiorana leggera cos'altro fare cos'altro dare al cielo..." ’A Cimma Fabrizio De Andrè Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze interessanti. Se vuoi, puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un Manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>> Tutti gli usi alimurgici o farmaceutici indicati sono a mero scopo informativo, frutto di esperienza personale, declino ogni responsabilità sul loro utilizzo a scopo curativo, estetico o alimentare.

  • CHE FICO!

    amîgo amîgo ma chinn-a zu da o fîgo* Anche questa estate sta finendo, finiscono le vacanze e si torna alle attività comuni. Chi torna al lavoro, chi a scuola, chi torna a scrivere post. È stata un'estate con qualche intoppo, due cadute ravvicinate con conseguente rallentamento, una specie di riordino della cucina, che ha fatto sì che per il momento abbia ancora disordine ovunque, qualche evento che si è rivelato faticosissimo. Insomma, se non ad altro, questa estate è servita a farmi capire che ormai i tempi di preparazione e di ripresa per il mio fisico sono diventati molto più lunghi, a volte mi sembra vadano per l'eternità. Ritorno al blog per parlare del fico, dei suoi frutti dolcissimi e delle sue foglie delle quali ho scoperto solo tardi le innumerevoli proprietà. Non sono ingorda di questo frutto, me ne basta uno al giorno, possibilmente raccolto dall'albero e mangiato subito, e non amo trasformarlo, se non come fichi secchi, ma qui è difficile riuscire a farli bene. - Fico di Bacoli nato e cresciuto alla rovescia - -foto dal web- È un albero delle zone mediterranee calde, e propri al sud ho imparato a mangiare i Fioroni, i primi fichi, dalla lenta maturazione pronti a giugno. Ne esistono diverse varietà, neri, rossi, verdi, bianchi... Pianta citata più volte nei testi antichi tanto era diffusa ovunque e pare sia la prima coltivata dall'uomo, forse grazie alla sua facilità di adattamento ai terreni aridi e a tutte le situazioni più difficili. Famoso è il Fico di Bacoli, cresciuto alla rovescia. È l'albero della conoscenza, chi non sa di "Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture." Genesi 3,7-8, fino alla maledizione scagliata da Gesù che trovatolo senza frutti lo seccò all'istante., Matteo 21,18-22. Non è certo invece che Giuda si sia davvero impiccato ad un albero di Fico, anzi nemmeno che si sia davvero impiccato, nella tradizione si raccontava questo a noi bambini per ricordarci di non arrampicarsi, perché albero traditore vista la facilità del legno fragile e tenero di spaccarsi di colpo. Se tu vuoi cacciare un amico fai il fuoco con legna di fico, se hai un amico vero fai il fuoco con legno di pero. È l'albero sotto al quale vennero allattati Romolo e Remo, ed è da allora che si regalano fichi secchi a fine anno come bene auguranti portatori di fecondità e ricchezza. È caro ai Greci come dono di Dioniso e Demetra agli uomini, e si racconta che fu Polifemo il primo ad usare il lattice di fico per cagliare il formaggio. Sono talmente tante le leggende attorno a questa pianta che impossibile citarle tutte. Mi preme in ultimo ricordare che è fra i pochi alberi a rimanere maschile nel frutto. Il fico produce il fico. Punto. L'arancio fa l'arancia, il pero la pera, il melo la mela, il banano la banana, il fico no, rimane fico anche nel frutto, è meglio. È davvero necessario scrivere perché? il significato della parola al femminile la conosciamo tutti e pare sia in uso da quando nel 421 a.C. viene messa in scena La pace, commedia di Aristofane che chiude con chiare allusioni al frutto del fico come "frutto saporito della sposa", senza tralasciare altri scritti che legano la pianta a Priapo, simbolo dell’istinto sessuale e della forza generativa maschile, quindi anche di fecondità ... e ancor oggi ci si esprime con termine di "è un fico" senza sapere nemmeno più il perché... Cosa farne quindi dei fichi raccolti ieri? Di facile deperibilità, e non potendo mangiarli tutti ho fatto per la prima volta la marmellata. Non erano tanti e per strada avevo raccolto anche delle piccole pere selvatiche quindi ho fatto un misto. Sbucciati i fichi e tagliati , li ho messi in una ciotola con lo stesso peso di zucchero, mentre le perine tagliate a pezzi ad ammorbidire in una pentola con pochissima acqua, quel tanto da poterle passare con l'estrattore, ottenendo una purea che ho aggiunto ai fichi e ho messo a cuocere per ottenere la marmellata. Per le quantità sono andata un po' ad occhio, la purea di pere era la metà del peso dei frutti puliti e per quello ho calcolato lo zucchero solo sul peso dei fichi che dolcissimi avrebbero da soli avuto bisogno di meno zucchero. La marmellata di fichi è tremenda, tende a cristallizzare in fretta, ad attaccarsi e saltare in gocce ustionanti più di qualunque altra, ci vuole attenzione costante e fuoco basso. Visto che non è tra le mie preferite ho aggiunto alla fine delle scaglie di mandorle pelate e un cucchiaio di rum, assolutamente non necessari se si vuole una confettura pura di fichi, così come non servono le pere. Ho fatto ciò per avere qualcosa di diverso da servire con i formaggi, e se devo essere sincera, per il mio gusto, la prossima volta aggiungerò delle noci al posto delle mandorle. Una delle cose che ho imparato già da adulta e non rientrava negli abitudini di casa mia, è l'uso delle foglie di fico. Per tanto tempo non ho nemmeno creduto fossero commestibili, visto le raccomandazioni di stare attenta al lattice ustionante per la pelle, poi il soggiorno al sud mi ha insegnato tante cose. Non solo sono commestibili e quindi usate, previa leggera sbollentatura, per avvolgere alimenti, tipo involtini da cuocere, o fresche come si usano qui quelle di castagno al posto della carta forno, ma anche fasciare formaggi, o qualsiasi cosa si voglia tenere coperta. Come dimenticare la pampanella servita freschissima nelle foglie di fico sulle spiagge tarantine? Ora pare sia proibita, per l'igiene dicono... pur essendo un gratuito vassoio vegetale, assolutamente naturale e più biodegradabile di così! Esattamente come è proibito avvolgere la burrata nelle foglie di asfodelo, che contribuivano a trasferire al prodotto il particolare gusto pungente. Ora, sempre per igiene, abbiamo inventato delle bellissime foglie finte fatte di tre fogli di polietilene... Potrei continuare con le casse di legno per il pesce sostituite da quelle perfette in polistirolo così igieniche, che però... peccato! non permettono lo sgrondo del sangue, per esempio, delle acciughe... ma divagherei troppo. Chissà se un giorno, giusto un attimo prima dell' estinzione di massa, torneremo furbi. Sempre sull'onda dell'entusiasmo di provare a fare qualcosa di nuovo, ieri dopo averne sentito meraviglie mi sono cimentata anche nella produzione dell'olio di foglie di fico. Una piccolissima quantità, facile da fare, solo per provarlo. Basta sminuzzare delle foglie di fico, eliminando le nervature più grandi. Intiepidire a bagno maria olio extra vergine di oliva, senza scaldare troppo, e poi frullare insieme ai pezzi di foglia in un frullatore. Occorre poi filtrare accuratamente, lasciar raffreddare e usare a piacimento per condire pasta, pesce e verdure. È meglio farne poco alla volta e conservarlo in frigo. Per provare ho usato 50gr. di olio con 10gr. di foglie fresche Ma non tutte le ciambelle escono con il buco e mentre stavo filtrando mi è scappato tutto di mano e patatrac! si è rotta la bottiglietta. Non mi è rimasto che assaggiare qui e là, con il dito, si ottiene un condimento molto aromatico, devo rifarlo per provarlo a dovere. Non solo utilizzi banalmente alimentari, ma pare che le foglie di fico usate in infuso, abbiano importanti proprietà terapeutiche, antinfiammatorie e contro la tosse, come regolatrici di trigliceridi e glucosio. Lo stesso olio di cui sopra può essere assunto, un cucchiaino al mattino a digiuno, senza dimenticare i blandi effetti lassativi. Pur essendo propensa ad approfittare quando la natura mette a disposizione, e quindi se dovessi usare una tisana di foglie di fico a scopo terapeutico, preferirei farla tra giugno e luglio, prima dei frutti, quest'anno ne farò seccare una piccola quantità, fosse mai m'avessero a servire nell'inverno. Lavate accuratamente, asciugate, tolto il picciolo e seccate all'ombra. - Foto: van Noort, S. & Rasplus, JY. 2020 - - da pagina Fb di Biologica - Ci sarebbero ancora tante cose da dire, soprattutto a livello botanico, di difficile comprensione per i profani e ancor più difficili da spiegare per me che botanica non sono. Semplificando davvero molto e vi invito ad approfondire nei testi opportuni, quello che pensiamo essere un frutto è in realtà un fiore. E perché questo fiore si trasformi nella goduria che tutti conosciamo ha bisogno di un piccolissimo insetto erroneamente chiamato vespa del fico, Blastophaga psenes, che depone le uova al suo interno impollinandolo. I nuovi nati, i maschi insemineranno le femmine per poi morire all'interno del frutto, le femmine trasmigreranno alla ricerca di un altro fico dove deporre, trasportando anche il polline, che trasformerà il fico in frutto. La sopravvivenza del fico e di questo insetto è così vicendevole che uno non vive senza l'altro. Le piante chiamano questo particolare insetto, che vive grazie al fico e il fico grazie a lui, tramite un segnale chimico riconosciuto solo a loro. Il fico selvatico, o Caprifico, senza il lavoro di questo insetto, produce solo frutti stopposi e non commestibili. Nessuna paura di mangiare insetti quando si mangiano i fichi, sono piccolissimi, e gli enzimi della pianta li dissolvono rapidamente. Ma l'uomo, che vuol sempre metterci del suo, è riuscito ad ottenere varietà domestiche che producono frutti senza questo tipo di impollinazione. Peccato che detti frutti siano sterili. Attualmente le piante di fico sono attaccate da un altro insetto, il punteruolo nero del fico, che sta sterminando le piante di Liguria, Lazio, Toscana, e con impressionante velocità si sta espandendo, tanto che va segnalato se ritrovato sulle piante. Ci sarà da studiare qualche altro elemento per contrastare. - Adulto di Aclees taiwanensis (foto Crea DC) - *amîgo amîgo ma chinn-a zu da o mæ fîgo Amico o non amico scendi dal mio albero di fichi Proverbio genovese Possiamo essere amici finché vuoi ma se c'è di mezzo l'interesse... Condividi il post! e poi torna, troverai esperienze affascinanti. Se vuoi puoi iscriverti alla news letter cliccando qui>> per non perderti nessun articolo. Lella Lella Canepa, creatrice di "Donne da Ieri a Oggi" una fantastica mostra poi tradotta in un libro e di "Erbando" un ricercato evento che produce sempre il "tutto esaurito" da subito, anch'esso tradotto in un manuale dove si impara a conoscere e raccogliere le erbe selvatiche commestibili come facevano i nostri avi. Lella Canepa ama da sempre tutto ciò che è spontaneo, semplice e naturale e coltiva da anni la passione per tutto quello che circonda il mondo manuale del femminile. tramandato per generazioni da sua mamma, sua nonna e la sua bisnonna. Se vuoi, puoi metterti in contatto con Lella qui>>

bottom of page